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  • Il metodo

    Il potere del NON-FARE: Quando l’INAZIONE supera l’AZIONE

    Non avrei mai pensato che potesse succedere. Se me lo avessero detto prima, avrei risposto che per una donna come me, sempre attiva ed energica, sarebbe stata la “morte civile”.

    Mi sono troppo spesso identificata nel fare, negli impegni e nel dover arrivare sempre dappertutto. Se non faccio non mi riconosco. In azienda efficace ed efficiente. Nelle mie giornate di formazione carica di energia e massima attenzione. Il calendario del computer sempre pieno di tassellini colorati per distinguere le attività di coaching individuale, le giornate di formazione, la consulenza presso Optima, l’insegnamento dello yoga e poi, a ruota, tutti gli impegni di vita personale e familiare.

    Ma il 27 febbraio qualcosa di molto forte e shockante ha cambiato la partita!

    Un gravissimo incidente in macchina, mi vede “miracolata”, con un tot. di ossa rotte e la macchina demolita. Mi sono ritrovata sospesa in aria, con la macchina rovesciata e la testa all’ingiù e, in un fotogramma fulmineo di una manciata di secondi mi sono comparsi, davanti agli occhi, mio figlio, mia figlia, mio padre e mia madre.  Per una frazione di tempo ho pensato: “è finita!”. Non posso più farci nulla. Lo so sembra incredibile, per la prima volta ho pensato che senza di me avrei provocato sicuramente del dolore, del dispiacere ma poi…tutto comunque sarebbe andato avanti. Chissà se fuori da qui c’è magari davvero qualcosa di meglio!

    Appena picchiato terra col tetto della macchina e sentito che ero viva, il secondo pensiero è andato al dolore devastante che sentivo all’altezza del bacino e alle mie gambe che non reagivano. E’ stato un pensiero di terribile paura, all’idea di restare per il resto della vita in carrozzina. La macchina era schiacciata e le portiere non si aprivano. All’improvviso, un uomo alto dai capelli bianchi, sulla cinquantina, ha divelto la porta e mi sono sentita liberata. Quell’uomo l’ho visto solo in quell’istante e poi più. Non c’era lì fuori. L’ho cercato con lo sguardo per ringraziarlo, perché mi aveva salvato anche dalla paura si potesse incendiare la macchina. Ma non c’era. La sua immagine nitida e precisa ha attraversato i miei ricordi ogni giorno per un bel po’ di settimane. Mi è sembrato un angelo. O forse lo era. 

    Sicuramente il messaggio che ho sentito forte tuonare in me è stato: il tuo tempo è ancora qui.

    35 giorni di immobilità assoluta in ospedale, giorno e notte, e 2 settimane e mezzo di riabilitazione in fisioterapia intensiva. Circa 2 mesi d’ospedale.

    Non raccomanderei ovviamente a nessuno questa esperienza e, nemmeno a me stessa augurerei di riviverla, ma questa è stata l’esperienza più preziosa e potente della mia vita.

    Da ricercatrice di crescita personale e discipline orientali, facilitatrice Mindfulness e coach emotivo comportamentale ho approfondito, negli anni, il tema della presenza mentale e del “qui e ora” con diversi studi e approcci. Approfondito ed esperito attraverso pratiche e tecniche quotidiane.

    Ma ora incarnare lo stato di presenza così prepotentemente ed intensamente è stato diverso. Ho scoperto qualcosa di straordinario.

    Ho vissuto 35 giorni nella resa totale e nella perdita di controllo.

    Non potevo più controllare la mia attività lavorativa. All’improvviso tutti gli impegni in agenda sono saltati. Esattamente come in occasione del Covid, ma qui la differenza era che questo stop riguardava solo ed esclusivamente me. 

    Non avevo controllo né su figli, né su genitori. Non solo, la vita in questo momento, ha voluto “appesantirmi il carico” e, parallelamente al mio incidente, mia figlia era ricoverata in ospedale in Portogallo. Entrambe impossibilitate ad aiutarci e nella sofferenza, e io non potevo correre da lei. 

    Ero spaventata e angosciata per non poterci essere, come se in quel momento vedessi solo la presenza fisica come normale comportamento di una madre.

    Non avevo controllo sulle mie scelte alimentari, sugli orari di veglia e di sonno.

    Ho perso il controllo della mia fisiologia e della mia igiene personale.

    Ero nella più completa dipendenza giorno e notte. Costantemente nel disagio di chiedere.

    Non passava giorno senza che si paventassero davanti a me tutte le immagini dell’incidente, ero dolorante e spaventata all’idea di dover stare ferma, di non potermi spostare nel letto. Ero preoccupata delle conseguenze a medio e lungo termine, fisiche, psicologiche e lavorative. Il sistema in cui sono inserita non mi aspetta, pensavo. Cosa mi perdo?

    Fino a quando, è avvenuto il click: Quanto dura l’attesa? In questo caso è inutile

    L’attesa aveva a che fare con il controllo e la tensione. Appena compresa questo, mi sono davvero “lasciata andare”.

    Questo tanto anelato “lasciare andare”, perseguito attraverso gli anni di studi, yoga e  mindfullness, ora come un fulmine istantaneo, si stava facendo totale presenza.

     “Lasciare andare” ha significato per me smettere di stare tra lo shock del passato (fotogrammi continui dell’incidente, paure di quello che avrebbe potuto succedere, ecc) e le aspettative e pretese del futuro (quanto tempo resterò qui? tre, quattro, cinque settimane? Riprenderà il mio corpo a muoversi come prima? E’ sempre stata una grande conquista per me avere un corpo prestante e flessibile. Tornerò a praticare yoga?)

    Si trattava di stare solo con quello che c’era, così com’era, che mi piacesse o no; si è aperto uno spazio di vuoto, un esserci, senza spreco di energie. Mi è arrivata intensa la comprensione di quanta energia spreco nella mia quotidianità quando non sono nel presente.

    Quanta stanchezza accumuliamo a fine giornata per la nostra incapacità di stare nel presente! 

    La nostra “mancanza di tempo”, i nostri corsi di “time management”, nascono da una tensione costante, da un’ansia galoppina che a fine giornata si traduce in stanchezza e prosciugamento. 

    E’ un atto di volontà, come dice Roberto Assaggioli, padre della Psicosintesi, nel suo libro L’atto di volontà quello di allenarci a stare. La vera funzione della volontà è direttiva e regolatrice.

    La nostra fatica più grande è oscillare continuamente tra cosa è successo (una mail, il commento di un collega, una riunione, un messaggio, ecc.) e quello che succederà, le aspettative che hanno su di noi e che noi abbiamo sugli altri.

    E anch’io ho sentito la stessa fatica.

    L’inspiro pesante aggressivo che spingeva e arrivava sino alla periferia della mia pelle mi faceva sentire pesantezza di tutto ciò che è. Perchè questo periodo è stato anche molto pesante, difficile. Sentivo nell’inspirare che tutto era qui, con la sua densità e materialità. Ma restavo piacevolmente sorpresa da quanto mi piacere stare in Kumbaka, nell’apnea piena. Ero sospesa da tutto, come  fossi stata affacciata ad un davanzale. Tutto scorreva intorno ed io ero lì. Non sentivo più la pesantezza dell’inspiro, anzi una nuova leggerezza prendeva il suo posto e mi sentivo avvolta come in una nuvola bianca, sospesa, che fluttuava semplicemente senza fare nulla se non seguire la corrente. Ero la mia sospensione del respiro, bianca e vaporosa. L’apnea che toglie azione e mi porta nello stare con quello che c’è, senza altre pretese, né aspettative. Sospesa e nella resa anche col respiro. 

    Ad un certo punto sono entrata in un totale stato di dialogo con le mie ossa rotte e le mie emozioni. L’intensità dei miei pensieri era decisamente ridotta. 

    A quel punto mi lasciata trasportare dall’ascolto e dal non-fare. Ero a disposizione.

    E’ stata un’opportunità incredibile: stando nella resa totale ho sentito uno spazio di espansione di coscienza, affiorava tutto. Nel bene e nel male. Una profonda calma, come quando sulla superficie del mare si increspano onde e ochette ma sotto, in profondità, c’è sempre silenzio e tranquillità. Ecco, sono scesa lì, in quello spazio di calma ed era bellissimo. Ero in pace, vulnerabile, gonfia di tenerezza e amore per me stessa, sentivo un’energia interiore luminosa, accesa ogni giorno. Tutti i giorni, davvero tutti, alla mattina, in una breve meditazione di guarigione, sentivo una grande forza energetica, una luce che pervadeva tutto il corpo. 

    I miei pensieri erano molto più lucidi e potenti e mi sono arrivate intuizioni, sia personali che professionali, che sono certa non avrebbero potuto arrivarmi in uno stato di attivazione.

    Ho sentito quanto la mia relazione con Marta, mia figlia, crescesse ogni giorno di intensità e vicinanza nonostante la lontananza. 

    Ho iniziato a sentire gratitudine per quello che mi era successo: stavo vivendo un tempo preziosissimo, che per nulla al mondo avrei voluto perdere, dimenticare. Un tempo che non sarebbe mai più tornato e che aveva bisogno di essere consolidato dentro di me per non essere disperso e portare in me la sua trasformazione migliore. Come se percepissi una Simona prima e dopo questo spartiacque di tempo.

    La cosa più stra-ordinaria, nel senso proprio di fuori dall’ordinario, è stata quella di smantellare una mia forte convinzione: avere energia significa fare, agire, essere una problem solver ecc. 

    Essere obbligata a stare immobile ha espanso in me la consapevolezza del non-fare.

    Non-fare non significa perdere tempo o non creare. Anzi, esattamente il contrario.

    Ero in uno spazio più ampio di ascolto e “vuoto”.

    Tutto ha preso una nuova forma: mi sono sentita davvero nello spazio degli infiniti campi di possibilità, proprio come la fisica quantistica di Federico Faggin che descrive il campo quantistico come coscienza e libero arbitrio che agisce da dentro. E’ un’espansione di coscienza che non è riproducibile, si può conoscere solo da dentro. La fisica quantistica è dentro di noi e rappresenta quella parte imponderabile ma decisiva della nostra identità. Noi siamo campi.

    E in qualità di campo di infinite possibilità, la mia tensione di voler avere ragione o essere arroccata a delle credenze e convinzioni che mi hanno accompagnato per tutta la vita, a volte anche senza più rendermi conto se erano davvero mie o ereditate, scema di intensità. Lo sguardo si apre ed è più facile fluire con i propri contrasti, la diversità dei pensieri e delle emozioni.

    Nel momento in cui ho “lasciato andare” mi sono limitata ad osservare anche tutto quello che succedeva intorno, nella vita d’ospedale, dove ascolti storie le più disparate, incontri la vecchiaia e la sofferenza, ti ritrovi a vivere situazioni imbarazzanti che non avresti mai immaginato e sempre di più si abbassava la mia soglia del giudizio: non c’è un “giusto e uno sbagliato”, un “ho sempre fatto così”, “questa cosa non la potrei mai accettare”. Mi sono accorta che si è ampliato il mio campo di probabilità e si è alzata la mia gioia, la mia creatività e la mia gratitudine per tutto quello che mi stava accadendo.

    E così un giorno mi sono ricordata di una storiella zen, che conoscevo da anni, ma che si è presentata prepotentemente ogni giorno d’ospedale, nelle diverse situazioni che stavo attraversando.

    La storiella è quella del contadino cinese.

    E se quel contadino avesse ragione? Lui era sempre attento a non mettere etichette.

    E’ stata proprio questa l’esperienza più potente in questi 2 mesi d’ospedale. Sentivo la forza dei miei pensieri! 

    I miei pensieri e le mie parole plasmano la mia realtà sempre, qualsiasi essa sia. 

    Gli abitanti del villaggio vedono una sfortuna o una fortuna, perché la loro visione della realtà, o di quel particolare problema, è negativamente assoggettata ad un perenne giudizio: ma la realtà del contadino cinese, invece, è del tutto diversa. 

    il contadino cinese non giudica la realtà dai singoli fatti che accadono nella vita sua e della sua famiglia.
    Non giudica quel che gli succede. Anzi, in realtà, non giudica proprio nulla.
    Il contadino cinese lascia fluire gli avvenimenti. Lascia che le cose avvengano.

    Non ti è mai capitato di guardare con distacco a momenti veramente difficili accaduti nel tuo passato?
    Non ti è mai capitato di arrivare quasi a “benedire” il fatto che ti siano successe quelle cose?
    O arrivare quasi a dire: “Adesso capisco perché è successo!“.

    E’ proprio il non giudizio che il contadino esercita sulla realtà, che gli consente di viverla senza nutrire aspettative su ciò che accadrà.

    Spesso noi carichiamo di troppe aspettative ogni cosa che facciamo.
    Sembra quasi che ci risulti impossibile vivere senza.

    Ma come facciamo a giudicare se un evento è positivo
    o negativo per noi, se lo stiamo vivendo solo nel presente?

    Probabilmente ci basiamo troppo su ciò che noi vogliamo.

    Siamo troppo concentrati sui risultati, meno sul lavoro che stiamo facendo e a come la stiamo vivendo.
    Abbiamo lo sguardo concentrato sullo striscione di arrivo e finiamo col perderci le straordinarie emozioni della “corsa”.

    In queste ultime due settimane sono impegnata a re-imparare a camminare, portando l’attenzione “sottile” a tutte le parti del mio corpo. Sento tristezza e tenerezza per questa schiena che mi ha regalato tante soddisfazioni, tanto benessere e che ora è sofferente ed è stata bloccata per  settimane senza sentire aria e luce, se non nei pochi e peraltro anche veloci momenti in cui qualche gentile infermiere si occupava della mia “beauty morning”

    Forse non è solo tristezza. E’ paura e rimpianto.

    Paura di aver perso flessibilità, agilità e benessere. Rimpianto per il tempo trascorso e il lavoro fatto per arrivare a sentire così bene la mia schiena.

    Collaboro con lei e accolgo queste emozioni, anche se non facilmente, dicendomi, ho un corpo sano e mi prenderò cura di lei. La schiena è sempre stata per me la cartina tornasole di benessere e vitalità. La colonna vertebrale è la nostra struttura, la nostra impalcatura.

    Come se lei in questi ricovero ospedaliero non fosse esistita.

    L’emozione va anche al bacino. Ho rotto muladhara, il chakra del radicamento. L’ho frammentato in 7 punti. Il bacino elemento portanti della nostra architettura.

    Cosa significa rompere la struttura portante? Rotta, spezzata ed energeticamente ora c’è in essere un processo di ricostruzione.

    Che cosa rinascerà? Quale sarà il risultato?

    E’ una gioia sentire che, ogni giorno un po’ di più, il mio corpo sorride e respira. Torna a respirare anche la mia schiena. I miei piedi magri sentono un gran dolore a sopportare il peso intero del mio corpo perché per 35 giorni hanno perso il senso della gravità. Ma li sento come radici possenti, di una bella quercia, che necessitano di nutrimento e fiducia per tornare ad essere forti e radicate nel terreno. La mia clavicola sinistra rotta e destinata a vita ad essere scomposta, che ce la sta mettendo tutta per riprendere la sua funzione. Sono infinitamente grata per questa collaborazione intima che sento tra il mio corpo, i miei pensieri e le mie emozioni. 

    A corsa finita, sapremmo dire cos’abbiamo provato mentre stavamo correndo? Saremmo in grado di descrivere le sensazioni che abbiamo sentito e vissuto in quella corsa?

    Ci sto provando, anche attraverso lo scrivere, per fissare nel mio cuore e nella mia mente questo momento affinchè mi rendano una persona migliore e perché sarei contenta se la mia esperienza potesse essere utile anche ad altri.

    Troppo spesso nei nostri sistemi organizzativi conta solo se abbiamo “vinto” o “perso”. 

    Un po’ come “fortuna” o “sfortuna” per i contadini del villaggio.

    Questa esperienza mi ha lasciato anche un altro grande messaggio:

    La vita quasi mai ci dà ciò che vogliamo. Ma sicuramente ci dona quello di cui abbiamo bisogno. Anche se il più delle volte è un boccone duro da mandare giù. Proprio come osserviamo nella storiella zen del contadino cinese.

    Noi non possiamo giudicare gli avvenimenti come giusti o sbagliati, sfortunati e non,perché viviamo nel presente.
    Non possiamo prevedere il futuro.

    E’ nel modo di vedere le cose che possiamo fare la differenza tra una realtà negativa e una positiva. La NOSTRA scelta è nel nostro modo di guardare la vita, dove poniamo lo sguardo.

    Concludendo, e per non smentire la mia natura di coach:

    • Come puoi applicare il concetto di ‘non-fare’ per migliorare produttività e benessere in azienda?”
    • In che modo il ‘non-fare’ può contribuire a una maggiore creatività e innovazione nel nostro lavoro?
    • Sei il contadino cinese o uno degli abitanti del villaggio? Vedi la “sfortuna” anche dove non c’è? O vedi opportunità?
    • Giudichi continuamente la realtà per come la vedono i tuoi occhi?
    • Oppure, sospendi il giudizio e ti limiti a dire come disse il contadino cinese: Forse si. Forse no. Vedremo.

    Se sei interessato ad approfondire questi temi non perdere il webinar gratuito del 29 maggio alle ore 12 dal titolo:” IL MASCHILE E FEMMINILE IN AZIENDA: DI QUALE LEADERSHIP ABBIAMO BISOGNO? Essere leader o fare il leader nella nuova cultura organizzativa.

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